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Data

15 September 2023

Scritto da

Francesca Battistella

Leggere un libro per leggerne molti. La meravigliosa, infinita catena dei rimandi

Giorni fa mi è capitato di pensare che i libri sono come le barzellette: uno tira l’altro. A dire che vale la massima della mia cara amica Lella - magari fosse ancora con noi! - che sosteneva le bastasse raccontarne una per ricordarsi tutte le altre e intrattenerci per lunghi minuti tra fragorose risate.


Dimostrazione. Per il concorso comasco Scritture di lago che mi ha vista giurata per i libri editi, mi è stato chiesto da Ambretta Sampietro - promotrice e creatrice del concorso nonché cara amica - di recensire non solo i finalisti editi, ma i tre libri finalisti per la traduzione. Fra questi Moon Lake, Einaudi 2022 di Joe R. Landsdale, magistralmente tradotto da Luca Briasco. Poiché sono una persona curiosa - e spero di rimanere tale: pare che allunghi la vita - ho fatto una ricerca per capire chi fosse il signor Briasco. In Italia dei traduttori e delle traduttrici si parla ancora troppo poco, sono sotto pagati e credo strapazzati dagli editori avidi di far uscire in fretta i nuovi titoli stranieri che, lo sappiamo, vendono bene. E se non tutti sono dei maestri nell’arte sopra citata, molti decisamente lo sono e dobbiamo loro davvero tanto. Una domanda: quando leggete un libro in versione italiana, quanti di voi si preoccupano di sapere chi lo ha tradotto?

Ma torniamo a noi. Leggo che Luca Briasco ha un’invidiabile carriera nel mondo editoriale, che ha tradotto Joyce Carol Oates, Stephen King, David Foster Wallace, tanto per citare tre super nomi. Inoltre, è lo scopritore di tale Herbert Lieberman. Ma dimmi tu! Questo l’ho già sentito, ma non ho letto niente di lui. Così ho preso Città di morti, Minimum Fax 2018, nella straordinaria traduzione di Raffaella Vitangeli e ne sono rimasta folgorata.

Il libro è del 1976 e Lieberman credo sia ancora vivo alla bella età di novant’anni. La storia è presto detta: Paul Konig è il medico legale capo della città di New York. Temuto e stimato, non sbaglia un referto o una consulenza oltre a vedere dettagli e anomalie che sfuggono anche ai più bravi del suo team di anatomopatologi. Da poco è rimasto vedovo della moglie Ida, ha rotto i rapporti con la figlia ventiduenne Lauren detta Lolly e da cinque mesi non ha più sue notizie. Konig è un egocentrico di pessimo carattere, sarcastico, implacabile con i sottoposti, ma anche giusto e leale. Un perfezionista, un uomo che conosce il suo mestiere come nessun altro e che mette il proprio lavoro davanti a qualsiasi cosa, persino alla salute personale. Gli mancano due anni alla pensione, ma lui va come un treno finché una serie di catastrofi non gli piomba addosso, la peggiore delle quali è il rapimento della figlia da parte di un sedicente gruppo terrorista: la New World Militia. Come ho già detto siamo a metà degli anni settanta, per la precisione nel mese di aprile (davvero per Konig il più crudele dei mesi, come dice il Poeta), ma per sapere come vanno le cose non resta che leggere il libro perché della trama non intendo dire altro.

Ciò che davvero mi ha intrigata è il modo in cui Lieberman mette in scena i personaggi. Paul Konig per primo, costretto a far fronte non solo agli incalzanti impegni della sua professione e agli incombenti disastri di cui sopra, ma al suo fallimento come padre, alla propria incapacità di aver compreso questa figlia bella, tenera e ribelle che ha voluto educare secondo principi assoluti e molto personali di disciplina e implacabile determinazione nell’affrontare la vita, senza tener conto di chi aveva di fronte. Konig, un re Lear newyorkese, che ricorda, in ogni istante della sua giornata, gli incontri e gli scontri con la sua Lolly ora lontana e minacciata; ricorda e soffre delle tante e inutili parole dette e delle troppe non dette per significarle il proprio amore di padre; che nel corso dell’indagine per ritrovarla  ne scopre lati ignoti e si chiede: ma come ho fatto a non accorgermi che Lolly era anche questo. E nel contempo affronta il quotidiano: le tresche e le invidie di un collega che spera di prendere il suo posto, la quantità spaventosa di morti che transitano sui tavoli autoptici e le loro miserabili vite, animato da un’unica certezza: quella, alla fine, di non sapere assolutamente niente nonostante gli anni di studio e lavoro. Accanto a lui si muovono altri due personaggi: il detective Francis Xavier Haggard e il poliziotto Edward Flynn ambedue delineati alla perfezione. Il primo, degno contraltare di Konig, ugualmente duro, sarcastico, determinato. Un amico-nemico capace di tenergli testa e scoprire i suoi bluff. Il secondo, volgare, intuitivo, pedante e pistino, troppo abituato all’orrore quotidiano per non farci sopra della bieca ironia, forse talvolta ottuso, ma capace di ascoltare le dritte che Konig gli lancia e venire a capo degli enigmi.

E poi c’è la città di New York, i suoi spaventosi bassifondi, l’abbandono e la sporcizia, la solitudine e la violenza, le vite minuscole che si trascinano in edifici fatiscenti sovente vicini alle mille luci del centro.

L’unica pecca di questo libro che ho amato moltissimo potrebbero essere le molte pagine assai dettagliate dedicate alle autopsie. Non sono un narcisismo autoriale, sia chiaro. Hanno il loro perché, ma per alcuni potrebbero essere eccessive e disturbanti. Per il resto, dialoghi perfetti e formidabili descrizioni della città così vive e reali da credere di essere proprio lì, spettatori non visti di una tragedia dei nostri giorni.

 


Vi è mai capitato, leggendo un libro, di ricordarne altri e di volerne leggere uno richiamato nel testo?


 

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