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Data

21 January 2024

Scritto da

Francesca Battistella

New Zealand made me. Quattro anni agli Antipodi.

A marzo di quest’anno 2024, per l’esattezza il 15, saranno passati 44 anni dal giorno della mia partenza per la Nuova Zelanda. E no. Non ci sono andata come turista.


In questo caso lo racconterei in modo diverso o non ne parlerei affatto. Ci sono andata come borsista per il Ministero degli Affari Esteri. Dovevo fermarmi un anno, scrivere la tesi per il Master in Antropologia Culturale e tornare a casa. Ho finito per passarci quattro anni. On & off, come direbbero loro, i kiwi, i neozelandesi insomma. A tanti anni di distanza ringrazio ancora Domenico De Masi, mancato lo scorso anno con grande dolore e profondo rammarico per chi, come me, lo aveva conosciuto bene. Lo ringrazio per quel giorno nella sua bella casa di Roma - noi, suoi studenti di Metodi della Ricerca Sociale alla Federico II di Napoli, eravamo soliti accamparci da lui ogni tanto - quando domandò al gruppo chi voleva andare in Nuova Zelanda e la sventurata - io - rispose. Stabilimmo che avrei studiato i Maori nell’ambito delle migrazioni interne, una ricerca comparativa basata sul modello del ciclo di povertà della Scuola di Chicago (1920) e poi mi chiese se sapevo l’inglese. No, non lo sapevo a parte qualche parola legata a un soggiorno di studio in Inghilterra e alle canzoni dei Beatles. Vabbè - reagì - lo imparerai. E lo imparai davvero, con non poca fatica e impagabili gaffes lessicali. Tralascio lo shock che questa partenza rappresentò per i miei genitori e sorvolo sulla mia fuga da un matrimonio che stava andando a rotoli. Avevo 24 anni e una gran voglia di novità e avventura, nonché una devastante paura dell’ignoto. Fu un salto nel vuoto e caddi su un letto di piume. Alloggiavo in un college con ragazzi di ogni nazionalità, una babele di lingue, usi, costumi. Un divertimento senza fine.

Servivano la cena alle 17,30 con il risultato che alle 20,00 eravamo tutti alla caffetteria poco distante dal college a mangiare la qualunque. Sempre morti di fame. E in quella babele di lingue, quando è stato il momento di scrivere la tesi ho avuto editor meravigliosi che correggevano i capitoli a turno. E sono persino sopravvissuta a una formidabile scossa di terremoto mentre una notte, seduta alla scrivania, cercavo di chiudere un capitolo. Andavo a lezione ogni mattina con testardaggine perché non capivo un accidenti di quello che il professore di turno diceva. Mi alzavo, piangevo disperata per dieci minuti, poi mi vestivo, facevo colazione e correvo al massacro. Finché d’improvviso qualcosa è scattato nel mio cervello e l’inglese è diventato la mia seconda pelle. Ho conosciuto Letizia, italiana sposata a un neozelandese, biologa e genetista, due anni più di me.

Siamo ancora amiche, per me lei è una persona del cuore. Lei e suo marito Ralph, sua figlia Veronica, meravigliosa pittrice e mamma straordinaria che vive a Venezia, suo figlio Lorenzo. Sono stati la mia famiglia a Wellington per due anni, il porto sicuro dove rifugiarmi. Insieme a loro ho conosciuto tante altre persone, neozelandesi e membri della comunità italiana di Island Bay. Dopo il terremoto di novembre 1980 eravamo tutti presenti nella chiesa gremita per la messa di suffragio e a Natale - il mio primo Natale agli antipodi con il surreale caldo dell’estate - ricordo ancora una sontuosa cena del 24 dicembre a casa D’Esposito. Ho conosciuto i Maori, una comunità coesa e ridanciana, ma guai andargli dalla parte sbagliata! Ho passato dei fine settimana nei loro Marae, le grandi case delle tribù lontane dai centri abitati, enormi capannoni di legno intarsiato e dipinto con il simbolismo della loro storia di migratori dalle isole del Pacifico al paese della lunga nuvola bianca, Aotearoa, la Nuova Zelanda. Nei Marae si dormiva tutti per terra nei sacchi a pelo non prima di essersi presentati e di aver ascoltato le storie di ciascuno. Ho visto eseguire la Haka, ho visto le ragazze ballare agitando i Poe-Poe, palline di lana colorate attaccate a un lungo filo e mosse con una grazia infinita. Ho ascoltato le loro rivendicazioni, la desolazione di molte vite sbagliate, la confusione dei giovani, il rigore degli anziani, l’amore per le tradizioni. Ho visto gli allevamenti di pecore al centro dell’Isola del Nord, migliaia e migliaia di capi, puntini bianchi nel seno di una collina governati dai border collies dei pastori. Raro incontrare cani di tale intelligenza e simpatia. Ho provato a fare il bagno nel mare rischiando il congelamento. Ho cucinato la pasta al forno durante una serata etnica al college, mangiato dopo il calar del sole con gli studenti arabi durante il Ramadan, divorato cibo cinese con la mia amica Rebecca di Hong Kong ogni volta che riceveva pacchi dono dalla sua famiglia. Ho percorso in autostop con l’amica Marion gran parte dell’Isola del Sud finché siamo finite a Westport, sulla West Coast, in terra di miniere e minatori, un luogo di tale desolante tristezza da non capire come ci possano ancora essere insediamenti umani. Lo stesso luogo dove la scrittrice neozelandese Eleanor Cattell ha ambientato il romanzo The Luminaries, che anni fa aveva vinto il Booker Prize. Spiagge sconfinate e grigie, pioggia, freddo, silenzio. Sono tornata a casa, in Italia, e facevo fatica a parlare la mia lingua madre. Poi mi hanno offerto un lavoro come insegnante di italiano all’Università di Auckland, al Nord, e sono tornata, ma questa è ancora un’altra storia, un altro pezzo di questa straordinaria avventura che ho avuto la grande fortuna di vivere e che ha cambiato il mio modo di vedere gli altri, la vita. Molte volte in questi anni mi sono chiesta se non sarebbe utile per tanti giovani vivere un’esperienza così. E non parlo solo di andare all’estero, in tanti lo fanno per studio o lavoro. Ma trovarsi in un’unica abitazione, il college, con tutte le razze della terra - c’era persino, lo ricordo bene per la sua simpatia, un ragazzo del Lesotho - e capire che la parola ‘razza’ fa proprio ridere e andrebbe sostituita sempre e comunque con la parola ‘persone’. Vivere per mesi in un costante scambio di culture, realtà sociali e politiche, condividere un pezzo di vita e, spesso, restare per anni amici ignorando quelle barriere che solo chi non ha sperimentato tutto questo può ancora credere esistano.


E voi? Avete mai vissuto un'esperienza simile?


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