
Schopenhauer dice che…
Considerazioni nei momenti di sconforto.
Un mercoledì intorno alle 15.00, fuori dal liceo cantonale in Viale Carlo Cattaneo a Lugano. Due ragazzi intorno ai sedici anni: il belloccio dall’occhio vacuo e il nerd occhialuto, vicini e in piedi alla fermata dell’autobus. Battuta del nerd: - Vedi, questo è un mondo di merda. E infatti Schopenhauer dice che… Se avessi avuto tempo, ma andavo di fretta, mi sarebbe piaciuto fermarmi per ascoltare il resto. Magari avrei finalmente capito qualcosa del Nostro oltre ad associare, come mi avevano insegnato al liceo mille anni fa, il filosofo Schopenhauer a Leopardi, e tutti e due al pessimismo cosmico, con il risultato che avevo finito per considerarli due disperati, depressi, malmostosi e menagramo, lontanissimi dal mio modo di guardare alla vita. Peccato.
Ma quella piccola frase appesa nel vuoto ha scatenato l’onda dei ricordi. Così mi è tornata in mente la nostra insegnante di filosofia al liceo classico di Napoli. Una donna piccola e compatta, capelli biondi - immagino tinti perché non era una ragazzina - tagliati a caschetto, sigaretta perennemente accesa - allora non era vietato fumare in classe e quando, finita l’ora, la prof usciva dall’aula, la pedana era un tappeto di cicche -, di un’eleganza impeccabile, con le dita scintillanti di anelli. Era una persona gentile e una gran signora, questo va detto. Un giorno venimmo a sapere che si era laureata in legge, ma, forse ritenendo che esercitare la professione di avvocato fosse troppo oneroso e le rubasse un tempo eccessivo, o forse a causa di un buon matrimonio, ma privo di prole, che al contrario le lasciava troppo tempo libero, aveva deciso di prendere una seconda laurea in filosofia e insegnare. Con risultati scadenti, ahimè, visto che le sue lezioni si svolgevano grazie alla lettura di una serie di foglietti scritti a mano, un tot per ciascun filosofo. Una noia mortale. E se durante l’interrogazione non ripetevi quanto ascoltato, non c’era storia: venivi rimandata al banco con un voto basso. In alternativa, potevi studiare dal libro di testo e rielaborare con incalzante determinazione il pensiero del filosofo di turno mettendo la prof nell’impossibilità di ribattere per mancanza di argomenti. E di sapere, aggiungo io. Santa donna! Di conseguenza, visto che non ero capace di fare una delle due cose, le mie performance durante le interrogazioni erano pari a quelle di un mafioso arrestato: un omertoso silenzio. Sta di fatto che, essendo io persona ancorata al suolo, concreta - ero brava in storia, fatti non parole! - e soprattutto annoiata dall’ascoltare le elucubrazioni aeree di un branco di folli che mi pareva avessero un mare di tempo da perdere e nessun bisogno di lavorare sul serio per vivere, di filosofia non ho mai capito un acca. Lacune che, negli anni, si pagano care, credetemi. Mi restano vaghe memorie della caverna platonica e delle sue ombre, le monadi di Leibniz - sempre visualizzate come il pulviscolo che aleggia in una stanza baciata dal sole, perché mi apparissero gradevoli -, una destra e una sinistra hegeliana, di cui ancora oggi mi sfugge il senso. Il resto è notte e nebbia. Eppure, non molto tempo fa nella sontuosa biblioteca civica di Lugano, ho seguito con vero piacere e profondo interesse una conferenza su Immanuel Kant e il suo concetto di ‘pace perpetua’. Non sono in grado di ripetere una singola parola udita, ovvio, ma sarei rimasta ad ascoltare gli ottimi oratori per ore. Ma torniamo a Schopenhauer e soprattutto al povero Leopardi, falsamente e forse ingiustamente uniti nel loro pessimismo - o almeno così mi spiegava una cara amica più giovane e di sicuro più preparata di me in materia. Anche il povero Giacomo non godeva delle mie simpatie di adolescente, troppo determinato a distruggere il mio motto di allora: la vita è bella e vediamo di godercela finché siamo su questa terra. Mia madre lo adorava e quindi giù con Infiniti e A Silvia e Sabati nel villaggio e Pastori erranti dell’Asia. Con visite a Recanati nella casa natia del poeta e racconti della sua triste storia di giovane malaticcio e per giunta gobbo. Nulla era in grado di commuovermi, anzi. Trovavo irritante e inutile quel rotolarsi nei ricordi, nella pena del tempo che passa, nelle morti giovanili, nella natura matrigna. Poi passano gli anni. Poi s’invecchia. Poi si capiscono un mucchio di cose e si realizza che un altro mucchio resterà per sempre un mistero. Cambiano le cellule che ci compongono e cambiamo noi. Persino Leopardi ci diventa, se non simpatico, comprensibile e rileggere l’Infinito ci commuove perché vibrano in noi corde un tempo inesistenti. Perché ripensiamo alla malinconia di nonni e genitori - chi aveva visto due guerre mondiali e un’epidemia di Spagnola, chi una guerra mondiale sola, ma tanto bastava - che forse avevano le loro buone ragioni per non essere così allegri. Una malinconia simile a quella che colpisce alcuni della mia generazione e di sicuro la sottoscritta. Vorremmo vedere un altro mondo, un mondo più accogliente, più gentile, più ricco di carità invece di essere circondati da governanti gretti, meschini, inviperiti, bellicosi, avidi, vendicativi e assassini. Governanti, duole dirlo, in larga maggioranza analfabeti funzionali. Un mondo rispettoso della diversità che è la vera bellezza dell’universo - guai se fossimo tutti uguali, pensa che noia! Invece no. Urla, pugni pestati sul tavolo, pessima educazione, testi citati alla carlona, risposte invelenite, muri che si alzano, armi che parlano, mentre la disinformazione spadroneggia, la creduloneria imperversa e, su tutto, trionfano un’ignoranza e una superficialità da far tremare le vene e i polsi. La sensazione è che il cervello rettiliano di molti abbia preso il sopravvento sulla corteccia cerebrale. Poveri noi e gloria ai Neandertal! È questo che abbiamo costruito negli anni? È questa l’eredità che lasceremo a chi verrà dopo di noi? Dovremmo sentirci colpevoli di non aver fatto abbastanza perché questo mondo fosse un luogo per tutti?
Non ho risposte, ma comincio davvero a pensare che Schopenhauer non avesse torto nel credere che questo mondo, nonostante i grandi passi avanti fatti dalla scienza in generale, era e rimane un posto di merda. Eppure, persino lui, sosteneva che l’unico vero modo perché l’individuo raggiunga la sua liberazione definitiva è un’etica legata alla compassione.
Be’, meditate, amici miei, meditate.