Un anniversario a sangue freddo.
Rileggere Truman Capote a cent’anni dalla sua nascita.
Chi non ha visto almeno una volta il film Colazione da Tiffany con una strepitosa Audrey Hepburn e un affascinante George Peppard? E seppure non lo avete visto per intero, vi sarà capitato di visionare lo spezzone in cui Audrey (Holly) canta l’indimenticabile Moon River. Bene. La pellicola del 1961, regia di Blake Edwards, è tratta da un best seller di Truman Capote del quale il 30 settembre 2024 cadono i cento anni dalla nascita. Scrittore, sceneggiatore, drammaturgo, artista poliedrico e maledetto, come qualcuno lo definì al tempo, omosessuale dichiarato, coltissimo e tormentato, era nato a New Orleans, Louisiana, USA. Quando aveva sei anni i suoi genitori si separarono mandandolo a vivere da alcuni parenti. Sua madre ogni tanto lo andava a prendere e lo trascinava negli alberghi dove era solita incontrare l’amante di turno. Lo chiudeva in una stanza buia e intanto si faceva i fatti suoi. Del padre, per anni nessuna notizia. Sembra fosse uno sbandato, preda del sogno di una ricchezza facile da raggiungere, sogno mai realizzato. Riapparve nella vita di Truman quando costui era ormai un autore affermato, ricco e acclamato. A scuola il giovane Capote era bravissimo. A dodici anni aveva già letto un’inusitata quantità di libri e vinto premi scolastici. Peccato fosse vittima di un accanito bullismo per gli atteggiamenti effeminati. Quando sua madre si risposa la segue a New York e, da quel momento, muta il suo cognome di origine in quello del patrigno: Capote. Trova impiego al New Yorker, viene licenziato. Scrive racconti e uno di questi, Miriam, gli procura riconoscimenti e fama tali da farlo entrare nei salotti del jet-set cittadino dove diventerà amico di non pochi personaggi di spicco, fra i quali persino Jacqueline Kennedy.
Nell’inverno del 1959 legge sul New York Times un articolo di cronaca nera che lo colpisce: il 15 novembre, nella cittadina di Holcomb, Kansas, qualcuno ha sterminato a colpi di fucile e coltello, nella ricca fattoria in cui abitava, la famiglia Clutter. Il padre Herbert William, la madre Bonnie Fox, la figlia di sedici anni Nancy, il figlio di quindici Kenyon. Uniche a salvarsi la figlia maggiore Eveanna, sposata, che abita in Illinois e la seconda, Beverly, che vive a Kansas City dove studia per diventare infermiera. Appartenenti alla chiesa metodista, i Clutter, di lontane origini tedesche (Klotter), erano amati e rispettati dalla comunità di Holcomb. Herb Clutter rivestiva ruoli importanti in vari comitati della cittadina e non rifiutava il lavoro a chiunque glielo chiedesse. Come unico ostacolo poneva il consumo di alcol, proibito nella tenuta. La moglie Bonnie, una creatura delicata e silenziosa, soffriva di depressione e si vedeva poco in giro. La casa, spaziosa e ben costruita su disegno dello stesso Herb, aveva una governante e per il resto era nelle mani di Nancy la quale, nonostante la giovanissima età, riusciva a gestirla alla perfezione. Studentessa modello, ottima cavallerizza, sempre disponibile ad aiutare gli altri secondo gli insegnamenti della sua dottrina, Nancy era bella e solare, ammirata da tutti, senza eccezioni. Chi e perché ha deciso di far fuori una famiglia così? I Clutter non avevano nemici. Tutti coloro che li hanno visti vivi per l’ultima volta hanno alibi inattaccabili e non ci sono indizi che possano aiutare gli investigatori fatte salve due serie di impronte di suole di scarpe impresse nel sangue accanto al corpo di Herb Clutter. Al capo dell’Ufficio Investigativo del Kansas Alvin Dewey sembra d’impazzire. Il delitto dev’essere l’opera di qualcuno venuto da fuori città, ma come e dove trovarlo? O trovarli, perché sembra che a commettere il crimine siano state due persone. Per una serie di fortunate circostanze, i colpevoli, Dick Hickock e Perry Smith, verranno arrestati a Las Vegas nella primavera del 1960, tradotti nel carcere di Garden City, processati e una volta condannati a morte, rinchiusi nel penitenziario di Lansing, Kansas, ma l’esecuzione avverrà sei anni dopo. Truman Capote era fermamente convinto che qualsiasi fatto di cronaca nelle mani di un ottimo scrittore - e lui sapeva di esserlo - potesse diventare un romanzo. Non è solo una dichiarazione di intenti, è una sfida. Per sei anni raccogliere notizie, leggere resoconti e verbali, intervistare tutti coloro che a vario titolo sono rimasti coinvolti in questa oscura e orribile vicenda, diventerà lo scopo principale della sua vita. Gli articoli che Capote scrive escono con cadenza settimanale sul New Yorker e alla fine formeranno uno dei libri più straordinari mai pubblicati e quello che gli darà fama imperitura: A sangue freddo. Per festeggiare l’uscita dell’ultimo articolo, Capote organizzerà il “Ballo in bianco e nero” rimasto celebre fra gli eventi mondani di New York per la ricchezza dei costumi e il calibro dei partecipanti.
Rileggere A sangue freddo oggi fa non poca impressione, in modo particolare alla luce dei recenti fatti di cronaca che affollano rotocalchi e notiziari televisivi: persone che uccidono per futili motivi, per ingovernabile rabbia, per gelosia della felicità altrui, per noia, per un irrefrenabile desiderio di provare un brivido di potenza, per auto affermazione. Sembra che anche questo abbiamo importato dall’America oltre alle tante cose positive: l’omicidio fine a se stesso. Inquietante, a dir poco. Non una reazione a un sopruso - orribile quanto si vuole, ma in fondo umana -, non la vendetta per un’ingiustizia subita, non un atto di auto difesa. Le giustificazioni dei criminali che ascoltiamo e leggiamo ci riportano tutte a questo libro, unico perché capostipite di un giornalismo d’inchiesta portato fino al suo limite estremo: raccontare nei più minuti dettagli vittime e aggressori. Il loro passato, il loro presente, i loro pensieri. Capote non tralascia alcunché. Le esistenze dei due assassini passate al setaccio, le perizie psichiatriche di cui la difesa tentò di avvalersi senza successo - nel cuore di giudice, giuria e popolo del Kansas la pena di morte era già stata decisa -. L’abisso in cui l’autore scruta, in particolare nel caso del mezzosangue Perry Smith, è un abisso che gli appartiene: un’infanzia priva di amore, segnata dall’alcolismo della madre, dal vagabondare del padre, dalla mancanza di solidi punti di riferimento e da frenetiche letture per sopperire al vuoto interiore e circostante. Smith é un adulto che presenta una discontinuità nel controllo dei propri impulsi aggressivi, che uccide senza provare nulla e infine copre pietosamente le vittime sostenendo che in fondo gli erano simpatiche. Capote si rivede in lui: ecco un destino che poteva essere il suo viste le identiche premesse legate all’infanzia e all’adolescenza. Altro discorso per Dick Hickock. Famiglia della piccola borghesia, di solidi principi, pronta al sacrificio per i figli - Dick e suo fratello - ai quali non ha mai fatto mancare nulla. I genitori, una coppia unita e amorevole, persone gentili e disponibili, incredule di fronte alle accuse rivolte al figlio che continuano a definire ‘un bravo ragazzo forse un po’ discolo’. Ma la molla che spinge Dick a percorrere chilometri su chilometri per raggiungere la fattoria dei Clutter - violando i termini della ‘parola’ dopo l’uscita anticipata dal carcere di Lansing per un furto con scasso - insieme a Perry, è una brama malata di ricchezza e potere, una rivalsa contro le sue origini piccolo-borghesi. In carcere ha sentito parlare della ricca fattoria della famiglia Clutter dal compagno di cella che anni prima proprio lì aveva lavorato per alcuni mesi. Soldi facili, nessun testimone da lasciare in vita e poi via in Messico a fare la bella vita. Eppure, pare non sia stato lui a premere il grilletto, ma che importa? L’idea e la sua realizzazione gli appartengono. Lo psichiatra che visiterà entrambi dichiarerà Dick afflitto da un grave disordine della personalità. Incapace di tollerare la frustrazione, è un impulsivo che tende ad agire senza pensare alle conseguenze delle sue azioni. Raccapriccia realizzare come l’unione di queste due menti abbia generato l’eccidio di quattro esseri umani mai visti prima dai loro carnefici. Una serie di omicidi a sangue freddo, appunto. Sentite un’eco di vicende attuali e nostrane? Io sì. Truman Capote è morto a Bel Air, Los Angeles nel 1984, poco prima di compiere i sessant’anni, di cirrosi epatica. La sua più cara amica è stata la scrittrice Harper Lee (Il buio oltre la siepe).
Se volete leggere, o rileggere, un libro che dopo quasi sessant’anni dalla sua pubblicazione non è invecchiato di un giorno, non perdetevi A sangue freddo.