Le case che abbiamo abitato e che ci hanno accolti.
Ricordi, tenerezza, nostalgia.
Quante case o appartamenti ci hanno accolti, dato ricovero, protetti e difesi nella nostra vita? A quante o quanti sono legati i ricordi dell’infanzia o dell’adolescenza o persino degli anni della prima maturità? Pochi - ma è solo un personale punto di vista - sono i fortunati che hanno potuto restare nella casa dove sono nati, o dove sono stati portati subito dopo la nascita, per tutta la vita. Sarebbe piaciuto anche a me. Di sicuro poter conservare quella casa. Meno restare nel luogo dove si trovava. E lo dico senza voler minimamente offendere gli abitanti di quel paese alle porte di Napoli, molti dei quali ho conosciuto e apprezzato, molti dei quali erano pazienti di mio padre e dunque fonte del nostro benessere e sopravvivenza. Molti dei quali, ancora oggi, riempiono di fiori la sua tomba e quella di mia madre, al tempo affettuosamente definiti “i francesi” in quanto nordici trapiantati al Sud per colpa della guerra. I miei la casa l’avevano costruita con fatica non molto tempo prima che io nascessi. Quando facevo domande nel merito rispondevano che mi avevano preparato un nido come fanno gli uccelli prima di deporre le uova. Mi sembrava una bella metafora del loro amore per me. Con noi vivevano i nonni materni e la nonna paterna, scappati anche loro da un Nord devastato dal conflitto e corroso dal ricordo di avversi schieramenti politici. La palazzina era circondata da un bel giardino con alberi da frutto, vanto di mia madre, e aveva subito negli anni varie trasformazioni. Formata all’inizio da un unico piano con un seminterrato, era cresciuta di altri due piani per dare alloggio ai miei nonni materni, stare tutti più larghi e magari affittare, così che parte di quelle mura rendesse qualcosa. Abbiamo avuto inquilini diversi. All’inizio amici nordici. Con loro le porte d’ingresso non erano mai chiuse a chiave. Giravamo su e giù per le scale: noi ragazzi, i nostri amici, i cani che negli anni ci hanno tenuto compagnia. C’erano pranzi e cene condivisi, feste di compleanno, persino il mio precoce matrimonio. Ma anche dopo, quando la nordica coppia aveva deciso di seguire a Trieste l’unico figlio diventato medico come mio padre, e a loro si erano sostituite persone del paese, serrare la porte ci sembrava ridicolo. Altri tempi! E poi un giorno, alcuni anni dopo la morte dei miei genitori, ho dovuto vendere. Non vivevo più lì, né in quel paese, né nella città vicina. Gestire il mio vecchio nido era diventato un compito impossibile. Ancora oggi cerco di non pensare al dolore provato in quel periodo, ma nella vita bisogna saper lasciare andare. Un pensiero che non mi consola, certo. Solo un fatto da accettare.
Ci sono state tante altre abitazioni nel corso della mia esistenza. Due meravigliose case in cui ho vissuto da ospite pagante in Nuova Zelanda; l’appartamento in collina a Pino Torinese affittato con il mio secondo marito; la casa sul lago d’Orta dove ancora torniamo; gli appartamenti abitati a turno a Lugano e quello dove ora viviamo poco lontano dal centro, solo per citarne alcuni. Ma ho ancora un piccolo alloggio che conservo come un gioiello prezioso acquistato dai miei come casa di vacanze nel 1975. Si trova nel paese di Massa Lubrense, pochi chilometri dopo Sorrento. È immerso in un bosco di limoni e dal lungo terrazzo sul quale affacciano le stanze si vedono Capri e Ischia. Ci veniamo un paio di volte all’anno ormai, ma sempre con grande gioia e non poca fatica, vuoi per il lungo viaggio, vuoi per tutte le piccole e grandi cose che non funzionano quando viene riaperto - le case chiedono di essere abitate, altrimenti si offendono e poi te la fanno pagare. Un tempo la maggior parte delle mie vacanze estive le trascorrevo qui e poi, a settembre, ci venivano i miei per un mese intero.
Avevano amici a Sorrento e si scambiavano visite e pranzi. L’alloggio ha un piccolissimo giardino con una boughenville trionfante, un ciuffo di erba cipollina, menta e rosmarino. Non c’è niente di veramente a posto in questo alloggio: i muri hanno delle crepe e così i pavimenti; i mobili sono quelli in parte recuperati dalla vecchia casa dei miei genitori, sono un po’ malandati, ma li amo perché ciascuno mi ricorda un momento della mia vita con loro, un avvenimento, la presenza di ospiti graditi, una festa trascorsa in letizia. E poi ci sono i libri della biblioteca di mamma, una parte di lei, della sua passione che oggi è anche la mia. In questo piccolo appartamento si sono avvicendate tante persone, me presente o assente. Una coppia di amici di Napoli ha trascorso qui per anni le proprie vacanze. La mia amica Luisa lo occupava nel mese di giugno negli ultimi anni della sua vita arrivando da Roma. Amava la luce di questo posto, sosteneva che scacciasse depressione e cattivi pensieri. Quando lavoravo in città, qui passavo anche i fine settimana invernali, dal venerdì sera alla domenica, a volte con un’amica, più spesso da sola. Allora i miei vicini dall’altra parte della corte interna erano Mario e Cilla con le loro figlie, la mia famiglia massese come li ho sempre chiamati. I loro gatti erano spesso da noi come ora, ogni anno, siamo ricevuti da Priscilla, la gatta della mia amica Maryse che abita al primo piano. Ci sente arrivare e ci chiama dal terrazzino. Poi si trasferisce. Qui sono venuti la figlia di mio marito con i suoi bambini a tenerci compagnia durante le vacanze estive. Quante risate, quante cene e pranzi sul terrazzo, quante gite al mare, a Positano, a Nerano. Gli anni passano e capita che mi domandi per quanto tempo ancora riusciremo a fare il viaggio che ci porta fin qui, quante persone amiche se ne andranno come è già successo, chi baderà a questa casa quando non ci saremo più? Forse pensarci è inutile e pure dannoso. Tutto quello che ottieni è avvelenarti il presente, rattristarti prima del tempo. Dunque, basta così e grazie piccola casa per la tua meravigliosa, amorevole ospitalità.
C’è una casa o un alloggio in cima ai vostri pensieri e ricordi?