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Data

31 March 2023

Scritto da

Francesca Battistella

Javier Marías fra realtà e finzione

“Non bisognerebbe mai raccontare niente” - J. Marías
Quanto di ciò che viene raccontato appartiene a ricordi reali e come si trasformano i ricordi grazie all’immaginazione?

Javier Marías, il grande scrittore madrileno amico e allievo di Juan Benet, come lui stesso si premurava di ricordare, ci ha lasciati a settembre del 2022. Per me, anche se non lo conoscevo di persona, è stata una perdita terribile. L’idea che ormai potrò solo ri-leggere le sue opere senza la gioia di aspettarne una nuova mi sembra ingiusta e crudele. Ma se immagino Javier Marías in un aldilà, forse è lui a considerare ingiusto e crudele non poter più comunicare con i suoi lettori, scrivere o parlare degli argomenti che amava, e lo è di certo per la sua famiglia non poter più vederlo e parlargli. Eppure è stato lui stesso a sostenere che “l’unico modo di sconvolgere il tempo è morire e uscire da esso” e il concetto di tempo - passato e futuro più che presente - ha infinita rilevanza nei suoi scritti. Scritti che rappresentano un’eredità così notevole e vasta che da lettrice non dovrei lamentarmi.

E proprio sul tempo, i ricordi e la finzione s’incentra un suo libro pubblicato da Einaudi nel 2000, Nera schiena del tempo. È un libro strano e illuminante, a mezza via tra il saggio e il memoir, così ricco di suggestioni e spunti di riflessione su realtà e finzione da essere impossibile riassumerlo qui. Un libro a cui Marías era, per sua stessa ammissione, molto legato e che purtroppo pare non abbia avuto il successo che meritava. Un libro da leggere e rileggere, come mi è capitato di fare dopo la sua morte. Ma la cosa interessante, almeno per me, è il motivo per cui è stato scritto: la necessità di spiegarne un altro o per lo meno di spiegarne i contenuti. Non parliamo di un testo astruso, ma di un romanzo del 1988, pubblicato in Italia sempre da Einaudi: Tutte le anime. All Souls è anche il nome di un famoso College di Oxford dove Marías ha insegnato per due anni. E nell’arco di due anni si svolge la narrazione. È un giovane professore madrileno a raccontare la sua vita di docente di spagnolo nell’appiccicosa, immutabile, pettegola città universitaria di Oxford, con le domeniche morte e le vacanze di ‘mid-term’ in cui i college si svuotano e tutto si ferma; i professori, i presidi e gli assistenti impegnati a spiarsi a vicenda; le interminabili cene in una facoltà o l’altra; gli amori provvisori e struggenti fra colleghi e la certezza della voce narrante della sua transitorietà in quel luogo dal quale spera di andarsene presto, ma dal quale nel contempo non riesce a staccarsi. Su tutto vigilano il tempo e i ricordi, propri e altrui, raccontati, immaginati o taciuti, ma ugualmente noti.

Ora, come sostiene Marías, “la gente tende a pensare che vi sia molta più autobiografia nei romanzi di quanta ve ne sia di solito”, ma questo non ha evitato all’autore l’accusa che il libro fosse, invece, un’opera autobiografica, addirittura un ‘romanzo a chiave’ e che le persone citate fossero reali seppure presentate con nomi di fantasia. Ebbene, Marías ha sentito il bisogno di chiarire l’equivoco e basta leggere Nera schiena del tempo per scoprire come. O ascoltare su YouTube la lectio magistralis impartita dopo aver ricevuto il premio La Quercia al Bottari-Lattes Grinzane del 2015, una straordinaria disquisizione sulla differenza che corre fra realtà e finzione. Marías non fa mistero dello scetticismo e della diffidenza che prova per quelle che, all’inizio di un libro o di un film, vengono definite ‘storie vere’. Tratto da una storia vera! Strillano i sottotitoli. E allora si chiede: cosa ci sarà mai di così incredibile in questa vicenda perché mi si dica a lettere cubitali che è vera? Poc’anzi si parlava di un bisogno di spiegare, o di una necessità, o forse solo di un desiderio di fare chiarezza, di fugare eventuali dubbi sulle intenzioni di chi racconta una storia ad altri che si chiedono se sia vera e fino a che punto lo sia. A quanti romanzieri, ad esempio, è capitato nel corso della carriera di sentirsi dire da amici o conoscenti: guarda che mi sono riconosciuto nel tuo libro, era di me che parlavi, forza, dì la verità. O anche: perché nel tuo libro hai messo lui/lei e non me? Nel prossimo romanzo voglio esserci anch’io e avere questo nome e questa faccia e questa professione.

Ma un romanzo - e Marías lo spiega molto bene sia nella lectio che in Nera schiena del tempo - è, prima di tutto, frutto dell’immaginazione di chi scrive. E quand’anche si agganci ad eventi accaduti, li trasforma, li modifica, li adatta. Perché, come dice Karen Blixen citata da Marías nella lectio, solo se sei capace di immaginare quel che è successo e di ripeterlo nella mente infinite volte dopo potrai raccontarlo. Solo se riuscirai a filtrare attraverso l’immaginazione un fatto realmente accaduto dopo lo racconterai come se non fosse mai accaduto. E questo perché la realtà è una pessima romanziera: è - paradossalmente - inverosimile o non credibile; allunga o accorcia a dismisura i tempi dei fatti avvenuti; getta troppa o troppo poca luce sugli accadimenti; manca di stile; non seleziona; guasta i misteri e manda in pezzi l’inquietudine. Di conseguenza, credere che un libro, solo perché narra di luoghi noti e usa i loro veri toponimi, solo perché ha personaggi che potrebbero essere realmente vissuti o che ricoprono ruoli concreti nella realtà, sia pienamente rispondente a dati reali e chiami in causa persone esistenti, è un errore.

Lo è, senza dubbio, nel caso di Tutte le anime di Marías. Che si premura però di chiarire quanto segue: “A uno scrittore di finzione, di fatto, non si può imporre niente, e non deve neppure chiedere il permesso per introdurre lì, nella sua finzione, qualunque persona o episodio reale che conosca, e se decide di farlo niente e nessuno glielo potrà impedire. Non siamo persone di cui fidarsi e tra noi ci sono persone senza coscienza, io non credo di essere così.” (Nera schiena del tempo, p. 51 - Einaudi, 2000). E non lo credo neppure io, sua appassionata lettrice. Credo piuttosto che Marías sia riuscito nei suoi tanti libri a restituire a chi legge un grande banchetto, a lungo metabolizzato, dove distinguere fra ricordo reale e restituzione del medesimo filtrata attraverso l’immaginazione sia praticamente impossibile. Il suo raccontare lento, l’indugiare costante sulle azioni compiute dai suoi personaggi e i loro pensieri, sono il prodotto di una rielaborazione mentale che prima di fermarsi ha compiuto innumerevoli giri, quelli necessari a trasformare qualcosa di complesso o banale in una creazione nuova e unica. E a governare il tutto - i ricordi, le emozioni, i discorsi, gli incontri - restano, inesorabili, il Tempo e il suo rovescio, un fluire ininterrotto di prima e dopo, il luogo in cui tutto s’incontra e si separa, persino i vivi e i morti: “…a meno che non pensi piuttosto a quel rovescio o a quella nera schiena attraverso la quale scorre la voce capricciosa e imprevedibile che conosciamo tutti, la voce del tempo quando ancora non è passato né si è perduto e forse per questo non è neppure tempo, quella voce che sentiamo in modo permanente e che è sempre fittizia come forse lo è…quella che qui sta parlando.” (Nera schiena del tempo, p. 269 - Einaudi, 2000). Alla fine, a pareggiare i conti fra vero e inventato, resta soltanto il filtro dell’immaginazione e la certezza che ogni cosa, ricordi compresi, in fondo appartiene alla vita e a nessun altro.


Esiste qualcuno che magari non avete conosciuto di persona, ma che vi ha lasciato, attraverso un’opera o altro, qualcosa d’indimenticabile, qualcosa che vi fa stare bene o vi conforta ogni volta che la ricordate?


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