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Data

12 December 2025

Scritto da

Francesca Battistella

Un saluto al 2025 e a tutti voi.

Quante domande e quante poche risposte. Ma non scoraggiamoci e non smettiamo di leggere e pensare con la nostra testa.


Desidero salutare il 2025 e gli amici reali e virtuali con un consiglio di lettura. Parlo di un libro che, a mio avviso, ha il potere di raggruppare in sé molti temi della nostra attualità. Temi non facili e con i quali non è piacevole confrontarsi, ma a nessuno dei quali è possibile sfuggire. È l’ultimo lavoro dello scrittore inglese Ian McEwan i cui libri, ci tengo a dirlo, non sempre mi hanno entusiasmata. Per me resta ineguagliato Espiazione e ora quest’ultimo, sontuoso e potente romanzo, Quello che possiamo sapere, Einaudi 2025, che nel finale vira addirittura al giallo. Una sensazione mi scava dentro ogni volta che m’imbatto in uno scritto di McEwan: l’inquietudine. Dal suo primo libro, affrontato nel 1982 in Nuova Zelanda in lingua originale, Cortesie per gli ospiti, fino a quest’ultimo, l’inquietudine resta l’indiscussa e principale emozione che i suoi libri mi suscitano. A questa unisco un senso di disagio, l’impressione, a lettura terminata, che qualcosa mi sia sfuggito o di non riuscire a dare un ordine ai pensieri accumulati nella testa. Perché, senza dubbio, le suggestioni generate da un libro di McEwan sono molteplici, dense, ingombranti e poco rassicuranti. Aggiungo che non amo i romanzi distopici. In gioventù ho apprezzato la fantascienza, ma la distopia è altro, è il contrario di utopia. È la descrizione di un futuro abitato dal male, dall’ingiustizia, dall’imperfezione o devastato da una qualche catastrofe naturale o generata dall’uomo. E l’ultimo romanzo di McEwan, manco a dirlo, è ambientato nell’Inghilterra del 2120, un’Inghilterra ridotta a un vasto arcipelago in seguito alla Grande Catastrofe e all’Inondazione che hanno colpito la Terra verso la metà del XXI secolo. Una serie di esplosioni nucleari, generate dall’essersi affidati a decisioni prese dalla IA durante guerre planetarie, ha dimezzato la popolazione mondiale, innalzato il livello dei mari, ridotto all’osso le risorse economiche e la produzione di cibo, scatenato pandemie da virus ignoti, impedito o fortemente rallentato gli spostamenti fra nazioni e ancor più fra continenti, immiserito culturalmente la popolazione e fermato la crescita tecnologica. Restano, sulle tante isole, in cima alle montagne, luoghi in cui ancora si conserva il sapere passato: biblioteche e archivi digitali ai quali attingere informazioni su quelle che furono le conoscenze utili a miliardi di individui. In questo universo, in cui la Natura ha ripreso il sopravvento, sopravvivono comunità che conducono vite simili a quelle di un tempo, lavorando, studiando, sposandosi e morendo. A narrare in prima persona la vicenda è Thomas Metcalfe, professore di letteratura del periodo 1990-2030, ossessionato dalla ricerca di uno scritto del 2014 del noto poeta Francis Blundy per la moglie Vivien. È un poema in forma di Corona - quindici sonetti, l’ultima strofa di ciascuno ripetuta all’inizio del sonetto seguente - letto da Blundy agli ospiti presenti a una cena ottobrina per il compleanno della moglie. Poema di cui, dopo quella sera, si sono perse le tracce. Eppure, sebbene, ospiti a parte, nessun altro abbia ascoltato o letto Corona per Vivien, come Thomas sa bene per aver letto articoli, recensioni, interviste ancora disponibili in rete e nella biblioteca Bodleiana ora trasferita sulle alture del Nord del Galles, quel poema è stato a lungo considerato la migliore produzione di uno dei poeti più conosciuti e amati del XXI secolo. Di cosa parlava la Corona? Un inno all’amore coniugale? Un peana alla dedizione di Vivien verso il marito Francis? Un’ode ecologica alla Natura che andava difesa e preservata? Ed ecco un primo tema: può l’immaginario essere più potente della realtà? Possibile che anche non conoscendo o potendo leggere le parole della Corona di Blundy se ne parli usando frasi e lodi sperticate? Che la Corona sia ancora più bella in quanto sconosciuta? Che si favoleggi dell’inconoscibile? Per Metcalfe scoprire che fine ha fatto il poema, poterlo stringere fra le mani, leggerlo diventa simile alla ricerca del Santo Graal. Gli sembra, in altre parole - e possiamo considerarlo un nuovo tema -, che solo così tutto tornerà ad avere un senso, un ordine, una logica non solo per la sua vita, ma per quel mondo disgregato e difficile nel quale vive. Una bellezza ritrovata che diventi cura per il tartassato pianeta Terra. E intanto scava nelle vite dei protagonisti: Francis Blundy, sua moglie Vivien, il primo marito di lei Percy Greene, la sorella di Francis, Jane e suo marito Harry - critico letterario, poeta e invidioso curatore dell’opera del cognato Francis. Sono disponibili i diari di Vivien, la storia della sua famiglia di origine, il forte legame con la sorella Rachel e il nipote Peter, la malattia del primo marito Percy affetto da Alzheimer - pagine sconvolgenti per chi ha vissuto in prima persona l’accudimento di un familiare in demenza -, l’incontro con Blundy e il successivo matrimonio, la nuova vita nel Casale riattato poco lontano da Oxford, la sua totale dedizione al poeta e nuovo marito, il racconto di quella famosa sera di ottobre e della lettura della Corona. E se nei diari si presenta un ‘vuoto’ è Metcalfe a riempirlo trasformando il ‘vero omesso’ in verosimile, ricostruendo, a costo di un ‘tradimento’, ciò che Vivien non racconta. Ma siamo sicuri che Vivien scriva la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità? Come altri ricercatori prima di lui Thomas Metcalfe sprofonda nel passato, in un mondo e in un periodo storico dove si sente più a suo agio, più vivo e partecipe che nel suo presente. Idealizza Vivien, la sente palpitante e vicina, addirittura più di sua moglie Rose; ne traccia un ritratto colmo di amore, perplessità per le difficili scelte di rinuncia, compassione. Vivien che, ai suoi tempi, come lui oggi, insegnava letteratura a Oxford, al punto che entrambi, a più di cent’anni di distanza l’uno dall’altra, lamentano l’abbandono delle discipline umanistiche in favore di scienza e tecnologia. Sono fantasmi quelli di cui Metcalfe si circonda, fantasmi che ancora popolano i luoghi che hanno abitato, quei fantasmi di cui ciascuno ha bisogno perché il passato non muoia e continui a inviarci messaggi, forse rassicuranti. Non così la pensano i suoi studenti. Tant’è che quando Thomas e sua moglie Rose propongono un corso sul declino e poi la parziale ascesa dell’IA e sulla ‘strada verso la libertà’ dal suo dominio, i ragazzi si alzano e abbandonano l’aula non prima di aver dichiarato, a mezzo di un portavoce, che sono stufi di sentir parlare degli orrori del passato, di quello che hanno perso, delle guerre, del Grande Disastro. Vogliono parlare dell’adesso, di quello che hanno e della speranza, delle idee di oggi, non di quelle di un tempo. Studenti, come dirà in seguito Metcalfe, incapaci di finire in due settimane un libro di 96 pagine. Ridotta attenzione, rifiuto del passato - a che serve? -, scarsa capacità dialettica, superficialità, apatia, disinteresse. Non sembra più un romanzo distopico, ma un triste resoconto di realtà purtroppo note a chi insegna o ha a che fare con i giovani. Non tutti, grazie al Cielo! Poi, per una serie di fortunate coincidenze, Thomas scoprirà che Vivien ha sepolto qualcosa nel giardino del Casale prima di abbandonarlo dopo la morte di Francis. Che sia proprio la Corona? Sarà un viaggio avventuroso, una ricerca del tesoro su quella parte dei Cotswold ormai diventata un’isola con fitta vegetazione, un percorso alla Stevenson e una conquista del Graal, appunto. Ma non sempre troviamo quello che stavamo cercando. A volte è meno, altre molto di più. E qui comincia il giallo. Quante sono, alla fine, le cose che possiamo sapere? Su gli altri, famosi o meno che siano, degni o meno di accurate ricerche sul loro lavoro, pensieri e vita privata, ma anche su di noi, abitanti di questo secolo o dei secoli passati e futuri? Quanto poco sembra cambiato l’essere umano in questo libro di McEwan - in fondo, a dispetto del Grande Disastro, un secolo conta nulla nell’evoluzione della specie. Se non altro, ecco una divertente osservazione a pag. 196: la civiltà del XX secolo, popolata da un certo numero di razzisti che disprezzavano le persone di colore, passava l’estate ad abbronzarsi per avere, alla fine, un colorito nocciola che eliminasse quel bianchiccio malato dell’inverno. Nel mondo di Thomas, ormai, sono tutti color del miele grazie alle molteplici unioni interrazziali. Evviva! Anche in questo, come in altri libri di McEwan, tornano alcuni temi cari all’autore: inganno e autoinganno, tradimento e ricatto, rimpianti e ricordi, l’inconoscibilità dell’altro da noi, legami asfissianti o violente separazioni basati su un segreto condiviso e devastante. Su tutto, trionfa la ricchezza della sua prosa, i dettagli che scolpiscono i volti e le opere dei personaggi, la stupefacente capacità di immedesimarsi nei caratteri descritti, le colte divagazioni, il ritmo perfetto della narrazione, le molte domande senza risposta. E la mia sensazione che tanto altro si potrebbe dire su e di questo libro, ma, come sempre, toccherà a ciascun lettore riscriverlo o viverlo come lo specchio di una narrazione che saremmo stati incapaci di produrre noi stessi in modo tanto accurato. Un libro che resta, comunque, un feroce monito - neppure troppo nascosto fra le righe - di un futuro possibile e orripilante, un futuro che siamo ancora in tempo a cambiare. Forse.


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